giovedì 28 agosto 2008

Nella cooperativa ruandese Copabu, dove hutu e tutsi lavorano insieme

Prima del 1994 a Butare, in Ruanda, nella cooperativa Copabu, uomini e donne lavoravano il legno e le foglie di banano per costruire strumenti musicali e prodotti di artigianato che assicuravano loro un degno tenore di vita. Poi arrivò la guerra, e, con essa, il terribile genocidio che falcidiò la popolazione ruandese. La Copabu fu distrutta e i suoi lavoratori sopravvissuti furono costretti a scappare nei paesi vicini. Ma nel 1998 la Gtz, un'associazione umanitaria tedesca, decise di aiutare questa cooperativa a far ripartire la propria attività. L'anno seguente arriva anche la Bottega Solidale di Genova, che decide di aiutare la Copabu a vendere i suoi prodotti anche in Italia attraverso la rete del commercio equo e solidale. Dal primo container del 1999, oggi ogni anno sbarcano a Genova circa 5 container di prodotti della Copabu da rivendere sul mercato italiano. Tra i prodotti più tipici di questa realtà produttiva ruandese, i tamburi tradizionali del posto, alcuni altri strumenti musicali locali come l'ichembe, che è una specie di mandolino a cassa armonica ampia con le corde di metallo, e ceste e mobili fatti con legno di jacaranda e con foglie di banano intrecciate. Ma non mancano anche prodotti fatti più per il mercato occidentale, come statue e oggetti di legno raffiguranti scene di vita quotidiana o cartoline natalizie. Dal 1999 a oggi il fatturato della Copabu è cresciuto del 60%. Attraverso questa cooperativa gli artigiani di Butare assicurano cosi a loro e alla loro famiglia un tenore di vita soddisfacente. Oltre alla possibilità di una crescita economica, questa iniziativa permette agli artigiani della cooperativa di partecipare anche a dei corsi di formazione professionale aumentando così le loro capacità professionali e il loro grado di scolarizzazione. Ma soprattutto la Copabu lancia con la sua testimonianza un forte segnale di pace, in quanto in essa artigiani hutu e tutsi lavorano e crescono insieme, cercando di superare gli odii e le ferite lasciate dal genocidio. Per questo il progetto si chiama "Amahoro, artigiani di pace in Rwanda", dove Amahoro significa appunto "artigiani di pace". Per chi fosse interessato, sul sito della cooperativa Copabu è possibile vedere i prodotti realizzati dagli artigiani di Butare. (fonte Terredimezzo)

martedì 19 agosto 2008

Educare i bambini al consumo critico

L'influenza esercitata dai bambini nelle scelte d'acquisto delle famiglie è cosa nota. Spesso essa è guidata però solo dai messaggi pubblicitari e dalle tendenze create ad arte dalle grandi multinazionali. Da oggi c'è anche chi cerca di basare questo protagonismo dei bambini su altri parametri, diversi dalle suggestioni pubblicitarie. Sono le associazioni che organizzano in giro per l'Italia percorsi didattici per aiutare i bambini a diventare "consumatori critici", ossia bambini educati sempre di più a sviluppare uno spirito critico nei confronti dei prodotti presenti sul mercato e a esprimere desideri diversi da quelli indotti dal mercato pubblicitario. Tra le associazioni che organizzano questi corsi vi sono le botteghe del commercio equo e solidale e alcune cooperative, come la Chicomendes di Milano e la Pangea-Niente Troppo di Roma. Tra gli obiettivi degli educatori protagonisti di questa iniziativa quello di dare ai bambini stimoli per pensare con la loro testa quando si tratta di acquistare qualcosa, stimoli basati non su un messaggio a effetto, ma sulla reale conoscenza della realtà e dei processi che stanno dietro un determinato prodotto. Questo viene fatto ovviamente con le modalità di apprendimento più adatte ai bambini: giochi di ruolo, disegni, video e visite guidate all'aria aperta. Per i bambini l'immedesimarsi, attraverso il gioco o altre forme ludiche, nei meccanismi nascosti nel mercato e nel commercio mondiali, li aiuta a cambiare la loro percezione della realtà, a renderla più vicina alla verità delle cose, e ad esprimere cosi desideri e reazioni diverse da quelle indotte dal mercato pubblicitario. (fonte Terredimezzo)

giovedì 14 agosto 2008

Al Caffè Basaglia di Torino, serviti ai tavoli da malati psichiatrici

E' un ristorante dove ogni giorno, dalle 19 alle 2, lavorano come camerieri una ventina di malati psichiatrici, coordinati e guidati da 2 infermieri dell'Asl e da un barman e un cuoco professionisti. Si chiama Caffè Basaglia e si trova a Torino. L'idea è venuta a Ugo Zamburru, psichiatra responsabile della Asl 4 di Torino, che da anni assiste persone con problemi psichiatrici, soprattutto di carattere schizofrenico. Dalla sua consapevolezza che tra le conseguenze più gravi della malattia psichica vi sono la marginalizzazione dalla società e la perdita di un ruolo in essa, Ugo Zamburru ha deciso di coinvolgere i suoi pazienti in attività di catering per continuare a farli lavorare e a farli stare a contatto con la gente. Cosi, in collaborazione con un circolo Arci, ha affittato gli ex studi cinematografici di via Mantova 34 a Torino, e ne ha fatto un ristorante. Lì, agli inizi del secolo scorso sono state girate alcune scene di Cabiria, tra i primi kolossal italiani e sembra siano passati anche i fratelli Lumiére. Servire bene, portare spesso il pane e sorridere, queste le 3 regole che sembrano guidare il servizio ai tavoli dei camerieri. Al servizio ristorante sono state recentemente affiancate, si potrebbe dire come contorno, anche attività culturali proposte da associazioni coinvolte nella gestione del locale. Nel Caffè Basaglia piatti forti sono agnolotti al brasato e risotto ai formaggi, serviti con professionalità all'interno di una sala con pareti colorate, sedie arancioni e rosse, tubi a vista e un bancone con scritte al neon. Per chi volesse provare il Caffè Basaglia, questo è il sito del ristorante, dove è possibile trovare tutte le informazioni necessarie sull'attività del locale. (fonte Terredimezzo)

martedì 5 agosto 2008

7 tribù Maori riottengono i diritti sulle loro terre

Grazie a un accordo tra il governo neozelandese e 7 tribù Maori, queste ultime riottengono i diritti su un territorio di 176.00 ettari, coperto da 9 foreste, per un valore economico totale che si aggira intorno ai 200 mlioni di euro. La storia racconta che nel 1840 fu firmato un trattato, il trattato di Waitangi, che sembrava contenere un volontario riconoscimento, da parte di 40 tribù dell'Isola del Nord, della sovranità della Corona inglese, che, a sua volta, avrebbe permesso ad esse di utilizzare la terra e di sfruttare le risorse in essa contenute. In realtà, dopo la firma di quel trattato, per vari motivi ancora oggi non del tutto chiari, quelle terre furono progressivamente frammentate e portate via alle popolazione aborigena. Con questo nuovo accordo, il governo neozelandese si impegna a far cessare l'esproprio e a cedere ai Maori i canoni annui d'affitto accumulati dal 1989. I circa 100.000 Maori delle 7 tribù interessate all'accordo potranno d'ora in poi amministrare i terreni, cosa che garantirà loro delle significative entrate. Basti pensare che solo le piantagioni di pino procurano un reddito annuo di circa 6 milioni di euro. Ma l'accordo tra governo neozelandese e Maori non promette solo di garantire a questi ultimi un futuro economico più tranquillo, ma anche di rivalutarli nella scala sociale della popolazione neozelandese, di cui essi costituiscono un 15% circa. Oggi infatti gli aborigeni spesso occupano i gradini più bassi della scala sociale e emarginazione, povertà e alcolismo hanno spinto verso il dimenticatoio la loro eredità umana, culturale, spirituale e sociale. Il rimpossessarsi delle loro terre e il ritornare ad essere capaci di costruirsi un futuro potrebbe significare per i Maori una svolta per continuare ad esistere e salvaguare e promuovere la loro storia e la loro cultura. (fonte Peacereporter)